In questi anni si è parlato molto dello spreco e dell’impatto ambientale, in quanto la Natura ci sta mostrando, tramite chiari segnali, che non è più disposta ad accettare la nostra mancanza di cura nei suoi confronti. Per questo, in Italia, si è iniziato a pensare in maniera più concreta alla risoluzione di questo problema: non solo si sono organizzate manifestazioni per sensibilizzare la popolazione, ma da gennaio è stata approvata la legge che prevede l’obbligo di raccogliere separatamente i rifiuti tessili, in modo da permettere un loro maggiore riutilizzo. Questa decisione è stata presa soprattutto in base alle stime di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che mostrano che il 5,7% dei rifiuti indifferenziati è composto da rifiuti tessili, ovvero circa 663mila tonnellate all’anno vengono destinate a smaltimento in discarica o nell’inceneritore. Sempre secondo Ispra, la media nazionale pro-capite di raccolta di rifiuti tessili è di 2,6 chili per abitante. Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Marche hanno già superato la soglia dei 3 chili per abitante. Ma da dove vengono tutti questi rifiuti?
Il fast-fashion e il suo impatto ambientale
L’industria della moda è la seconda più inquinante nel mondo, dopo quella del petrolio: questo è dovuto anche alla nascita negli anni ‘90 del fast-fashion. Con questo termine si intende un settore dell’abbigliamento che realizza abiti tendenzialmente di bassa qualità a prezzi super ridotti. Inoltre, lancia in tempi brevissimi nuove collezioni, cambiando velocemente le tendenze e, di conseguenza, i gusti dei consumatori. Per produrre così tanto in così poco, vengono attuati processi produttivi nell’arco di poche settimane, e soprattutto vengono utilizzati tessuti sintetici a basso costo, realizzati con materiali estremamente inquinanti come il cotone ed il poliestere, un materiale sintetico altamente tossico derivato dal petrolio, non biodegradabile, e difficilmente riciclabile quando miscelato con altre fibre come lo stesso cotone.
Il fast-fashion è, inoltre, responsabile anche di un enorme quantitativo di rifiuti. Producendo così tanto, si rischia di non vendere tutto; la merce invenduta viene bruciata rilasciando sostanze nocive, visto che la maggior parte di quella merce è stata realizzata con tessuti di pessima fattura. Inoltre, la bassa qualità dei vestiti, che si rompono o si scoloriscono con pochi lavaggi, ci induce a dover buttare e comprare con cicli regolari. Come possiamo diminuire la nostra impronta ambientale?
Alternative al fast-fashion: secondhand ed upcycling
Il secondhand è una forma di economia circolare che permette di vendere e acquistare abiti usati, riducendo l’impatto ambientale, limitando le emissioni di CO2 e l’utilizzo di acqua che sarebbero serviti per generare abiti nuovi. Questa abitudine eco-friendly sta prendendo sempre più piede in tutto il mondo: infatti, la vendita di capi secondhand sta crescendo in modo esponenziale, grazie soprattutto alle migliaia di siti dedicati, all’e-commerce e ai mercatini di abbigliamento dell’usato. Riciclare fa bene all’ambiente e al portafoglio: infatti, il più delle volte, si vendono abiti anche di buona qualità o di marca a prezzi modici pur di non buttarli.
L’upcycling significa riutilizzare materiali di scarto, pezzi vintage di alto valore e abiti non più di moda, per creare un prodotto, magari di funzionalità differente, ma che acquisisce una qualità maggiore. Ne esistono di due tipi: upcycling pre-consumer, quando si utilizzano scarti di tessuto usato per confezionare un capo, quindi un tessuto che non è ancora passato dalle mani del consumatore; upcycling post-consumer, ovvero quando si modificano vestiti già usati. Questa tecnica non è soltanto di riciclo, ma è anche di valorizzazione del materiale di scarto: infatti, essa si presta alla creazione di pezzi unici e irripetibili, di abiti di qualità pronti per essere indossati.